Cané, nome d’arte di Jarbas Faustino, è sicuramente un simbolo della Napoli calcistica degli anni ’60-70. Non è un caso che abbia lasciato un’impronta indelebile nel cuore dei tifosi azzurri sin dai tempi del suo arrivo nel 1962 dall’Olaria, squadra di Rio de Janeiro, da cui il presidente Lauro lo prelevò per 40mila dollari. Il suo contributo fu cruciale nel riportare il Napoli in Serie A nel 1964 per poi formare un trio d’attacco memorabile con Sivori e Altafini. Dopo cinque stagioni, Cané lasciò il Napoli per un breve periodo trasferendosi al Bari, per poi tornare militando per altre tre stagioni in azzurro. In seguito alla sua carriera da giocatore, Cané intraprese quella di allenatore, guidando diverse squadre, tra cui la primavera del Napoli, contribuendo inoltre al 7° posto della prima squadra nella stagione 1994-95 affiancando alla guida tecnica Vujadin Boskov. Oggi Jarbas Faustino Cané vive a Napoli, città che non ha più lasciato da quando è arrivato in Italia, diventando a tutti gli effetti un brasiliano-napoletano. Lo abbiamo intervistato in esclusiva per chiedergli del momento non proprio felice del Napoli post-scudetto, guidato da Walter Mazzarri.
Cané, che Napoli ha visto in queste ultime partite?
«Il Napoli arranca eccome. Attribuire delle colpe è inutile. Sono anni che questa società non ha radici. E logicamente i risultati sono anomali. È stato anomalo quello dell’anno scorso, con quel grande exploit, ed è anomalo quest’anno che si doveva rivincere tutto e puntare alla Champions. Invece stiamo qua a guardare e a giustificare un allenatore che non era l’uomo indicato. Ci doveva essere un cambio pensando al futuro. Allora, serviva un allenatore giovane ed emergente. Il mio compaesano Thiago Motta ha rifiutato per delle giuste ragioni, vedendo il modus operandi della Società Calcio Napoli…».
Anche Garcia non è stato all’altezza del compito?
«Questo francese sicuramente non era un imbecille, però non era l’uomo che doveva venire a Napoli. Invece si è andati avanti con il carnevale di certe presentazioni come quella di Capodimonte. Poi mi lasci dire una cosa: non si è mai visto che durante il ritiro precampionato la squadra vada ad uno spettacolo. Lì si va a preparare l’anno e basta. Io ragiono su questo perché conosco questa società. Sono stato vent’anni nel Calcio Napoli, come giocatore e allenatore della giovanile posso dire la mia e la dico tranquillamente perché poi tifo sempre per il Napoli».
Perché, secondo lei, Spalletti non è rimasto?
«Per me andava confermato perché al mio Paese si dice che se la moglie ti fa le corna non è che ti tagli ‘l’affare’. Quindi, andava fatto un passo indietro per trovare un accordo. Lui meritava la conferma anche se si erano bisticciati. Il presidente avrebbe dovuto chiedergli scusa, ma in privato, senza bisogno di farlo sapere alla gente, e lui sarebbe rimasto sicuro».
Così non è stato…
«Sì, anche perché hanno sempre litigato per questioni sportive o di mercato. Credo che tra i giocatori ci sia sicuramente qualcuno che soffre la presenza del presidente nello spogliatoio. La stessa conferma cinematografica di Osimhen, che vuole andare altrove dove si guadagna di più, serve per venderlo a gennaio o a giugno. Ma se tu parli di economia, con Zielinski che si offre di rimanere e gli offri la metà di quello che già guadagna siamo alla frutta».
Sul campo cosa non funziona nella testa dei calciatori?
«Devono cercare di ritornare ad essere quello che erano ma con serenità. La presenza del presidente può essere uno stimolo, ma non serve assolutamente se diventa presenza tecnica. Può al massimo parlare in privato con i componenti della squadra e dello staff. C’è gente che è in nazionale, non faccio nomi, che però sta perdendo la testa e sta giocando male già da un paio di partite. Giocatori che dovevano riposare col Frosinone sono andati invece in campo in ruoli sbagliati. L’ambiente non può dire: povero Mazzarri. Ma quale povero Mazzarri! Ha accettato un compito per cui tutti sapevamo che non sarebbe andata bene dopo la disfatta con il francese».
Ma sul mercato si può fare qualcosa per risollevare la stagione acquistando un difensore o un centrocampista?
«Non credo. Se prende un pezzo forte, per lo meno sulla carta, magari due, allora sì, ma non è nelle sue idee. Se vai a prendere i giocatori esclusivamente per il futuro, non penso. La squadra ha bisogno di gente in campo che ti dia subito una garanzia di risultato. Poi il risultato non viene, pazienza perché il pallone è rotondo. Il presidente avrebbe dovuto sapere che ogni tanto il pallone si sgonfia, così come la fortuna, con la palla che dopo aver colpito il palo va in rete, non sempre si ripete. Tutto ciò è avvenuto l’anno scorso e adesso non succede più, lo abbiamo visto anche nell’ultima partita».
La Champions è quindi irraggiungibile per lei?
«Sulla carta si può raggiungere tutto. Tra il dire e il fare però…».
Sono passati poche settimane dalla scomparsa del grande Totonno Juliano. È ora che riceva un riconoscimento importante come l’intitolazione di una delle tribune del Maradona?
«Veda la vita è fatta di queste situazioni da cui non si può scappare. E io sto soffrendo ancora a dir la verità. È stato uno dei primi ragazzi che ho conosciuto venendo in Italia, proprio uno dei primissimi, perché loro, mi riferisco a Juliano e Montefusco, giocavano nel settore giovanile. E quando sono arrivato nel lontano 1962 sono stati promossi in prima squadra. Praticamente l’allenatore Pesaola li ha portati in ritiro, voleva vederli da vicino perché nemmeno lui li conosceva ed è lì che li ho conosciuti. Ovviamente il mister li tenne con sé perché c’era tanta qualità. Sono qua da 65 anni e ho seguito da vicino la sofferenza di Juliano, motivo per cui negli ultimi tre anni è stato molto male. Qualunque riconoscimento se lo merita tutto, come uomo in primis e poi come giocatore. Ricordo un episodio: andavamo nei Napoli Club ad incontrare i tifosi seppur non obbligati. E si andava ogni settimana, sempre, per essere premiati dai sostenitori con qualche medaglia. Talvolta anche il lunedì che era il nostro giorno di riposo. Lui a un certo punto, in contrasto con la tifoseria, che sappiamo quanto sia volubile a Napoli, si rifiutò e non mise più piede in un club a partire dal 1963. Nonostante ciò, era uno che andava in campo e dava tutto se stesso, fino a diventare il capitano apprezzato da tutti».